Quando alla fine degli anni ’90, dopo diversi anni di lavoro sociale nelle campagne, muovendo da un’Associazione nata in Basilicata che conduceva iniziative contro il caporalato nelle campagne (l’Associazione Michele Mancino di cui ero il Presidente) abbiamo dato vita al percorso che ci avrebbe portato a Genova nel luglio 2001 riunendo i soggetti attivi del mondo agricolo contro la deriva neoliberista che determinava la crisi, non volevamo fare un sindacato.
Volevamo solo “cambiare il destino dell’agricoltura italiana mettendo in campo un progetto nuovo”.
Nacque, così, il Foro Contadino – Altragricoltura: uno spazio unitario in cui si incontrarono fin da subito agricoltori, allevatori, cittadini socialmente impegnati e provenienti dai percorsi più diversi.
Gli anni ’80 avevano diviso il mondo rurale e le migliori energie, quelle più consapevoli e comunque quelle che non avevano svenduto l’anima all’ideologia della competizione e della modernità sviluppista, si trovavano isolati e separati in una miriade di esperienze associative e sindacali fino ad arrivare alla solitudine autoreferente e impotente.
Il Foro Contadino aprì, dopo molti anni, uno spazio comune di incontro, di confronto e di iniziativa sociale aggregando tanti e tante.
Era il periodo dei Fori Sociali e la grande mobilitazione di Genova contro il G8 costituì immediatamente un momento di condivisione: ci fece incontrare la comune avversione al modello globalizzato dell’agroalimentare che veniva avanti e pervadeva le campagne e le città del mondo costruendo la crisi e imponendo il dominio di multinazionali e speculazione finanziaria.
A Genova, in Piazza Rossetti (la piazza dei contadini dove tenevamo incontri, forum e davamo da mangiare il nostro cibo), arrivarono le delegazioni del Movimento internazionale di Via Campesina (Bovè, Nicholson, Vieira, il Movimento Sem Terra) e la parte fino ad allora sommersa del modo delle nostre campagne, finalmente usciti dai campi per ritrovarsi insieme, dentro un grande movimento sociale, e condividere analisi, esperienze, critiche, pratiche, speranze e progetti.
Il Foro Contadino per Altragricoltura scelse la via del movimento di lotta e di pratiche sociali, aderì a Via Campesina diventando organizzazione di riferimento italiana e si sparse in tante aree italiane essendo da subito uno spazio libero di partecipazione in cui si entrava per condividere le iniziative rimanendo ognuno nelle proprie realtà sociali, sindacali, economiche, politiche di provenienza.
Fu così che si ritrovo insieme gente della CIA, della Coldiretti, della Confagricoltura, delle ACLI, della Copagri, di AIAB, di AMAB e di tante altre sigle e realtà diverse.
Il ragionamento di fondo era più o meno questo: “Serve un progetto nuovo per l’agricoltura e l’agroalimentare fondato sulla proposta della Sovranità Alimentare e capace di cambiare l’esistente, un progetto che pervada la società e spinga alla consapevolezza dei danni che sta provocando il modello dominante dell’agroalimentare”. Della società i sindacati agricoli che quel modello avevano interpretato e contribuito a determinare fino ad allora erano parte; dunque ci guidava l’idea che i sindacati agricoli andavano cambiati, andavano aiutati ad assumere una prospettiva diversa, andava facilitato lo spostamento delle forze in campo.
Sono stati anni (almeno tre), in cui lottavamo, praticavamo iniziative, producevamo proposte e documenti, stimolavamo discussioni scoprendo che (al di là dell’organizzazione sociale, sindacale, economica o politica da cui provenivamo) stavamo formando un punto di vista comune, un’idea di società in cui l’agricoltura e il lavoro della terra erano il punto centrale su cui ripensare le relazioni sociali.
Su uno degli striscioni che avevamo a Genova e che portavamo in giro in quegli anni c’era scritto in grande: “DAL LAVORO DELLA TERRA AL LAVORO PER UN’ALTRA SOCIETA’”. Sapevamo che avevamo bisogno di parole nuove e che solo dentro un nuovo progetto sociale potevamo rilanciare il ruolo e la funzione del lavoro della terra e della produzione/consumo del cibo.
Ognuno poi tornava nelle proprie organizzazioni di appartenenza sperando, pensando che, forti di questa elaborazione e legittimati dall’iniziativa prodotta, potevamo “cambiarle dall’interno”. Eravamo in buona fede, ingenuamente in buona fede ma l’obiettivo era una pura illusione. Ci mancava l’analisi dei rapporti di forza e la chiarezza degli interessi economici e politici in gioco. Soprattutto non avevamo ancora chiaro cosa fossero diventati in realtà i “sindacati agricoli”: una articolazione del potere politico usato per tenere le campagne nell’ignavia per garantire la spartizione della torta dei finanziamenti.
Quello che conta, però, è che ci abbiamo provato, usando diversi anni del nostro cammino nel tentativo di cambiare dall’interno, tentando di spostare gli obiettivi delle Organizzazioni Sindacali storiche e provando a democratizzarle per farle diventare più vicine agli interessi degli agricoltori e dei cittadini e rompendo l’abbraccio mortale di interessi economici e speculativi in cui stavano precipitando. Nessuno può dire di noi che siamo nati per fare un nuovo sindacato, per aggiungere una sigla alle tante esistenti.
La verità l’abbiamo scoperta presto: li abbiamo avuti tutti contro qualsiasi ipotesi di cambiamento. Ogni volta che provavamo ad avanzare una proposta a introdurre un tema a sollecitare il cambiamento di una posizione, raccoglievamo insulti, accuse di essere “provocatori” (idealisti nella migliore delle ipotesi), agitatori.
Per primi in Italia abbiamo detto e descritto con forza, lucidità e competenza quando grande era la crisi che nessuno voleva vedere. Per Coldiretti, CIA, Confagricoltura (e tanta parte del potere politico di turno) eravamo provocatori.
Ogni nostra iniziativa era ostacolata, isolata e gli agricoltori che partecipavano ricattati. Ogni volta che portavano in strada i trattori con noi o che partecipavano ad un nostro mercato o a un nostro progetto li chiamavano e gli dicevano: “se continui con loro la domanda pac te la scordi”.
Poi la crisi è esplosa esattamente come noi la avevamo annunciata e nessuno dei poteri sindacali che l’aveva negata ha trovato la decenza di riflettere e riconoscerla; dopo avere contribuito a determinarla, avrebbe significato darci ragione, ammettere il proprio fallimento, mettersi in discussione o, meglio, mettere in discussione le prebende finanziarie, gli stipendi, le rendite di posizione che avevano accumulato personalmente grazie all’accordo spartitorio con il potere.
Gli anni ’90 e il primo decennio del nuovo secolo sono stati anche gli anni dei Comitati di lotta, del rifiuto del Sindacato, del mettersi insieme per protesta contro il sistema che, per quanto negato dai “padroni delle coscienze”, era sempre più evidente e lasciava morti e feriti lungo il suo cammino: una messe di fallimenti di chi aveva investito soldi, lavoro e tempo dopo le promesse del meraviglioso progresso garantito dalla globalizzazione e dalla liberalizzazione dei mercati.
Movimenti ed esperienze sociali fuori dai sindacati ufficiali che finivano con il negare la stessa idea e legittimità del fare sindacato e che “gettavano il bambino con l’acqua sporca”. Cobas del latte, Forconi, 9 dicembre …. partivano da problemi veri e finivano sconfitti dopo aver gridato la rabbia che poi affidavano a percorsi corporativi, autoreferenti e persino antidemocratici.
Il risultato è che il rifiuto delle scelte e del ruolo antisociale che avevano finito per assumere CIA, Coldiretti e Confagricoltura diventava rifiuto del Sindacato come strumento della democrazia, come rappresentanza sociale capace di spingere chi rappresenta e tutta la società oltre la crisi, come espressione di un blocco di interessi, mediazione e rappresentanza.
Gli agricoltori ne sono usciti più soli, isolati dalla società, più deboli. Sconfitti.
La verità è che per uscire dalla crisi in cui è l’agricoltura produttiva italiana serve un progetto capace di parlare alla società (e non di isolare gli agricoltori), serve una rottura con i percorsi fatti fin’ora che ci hanno portato nel cul de sac della crisi, serve un nuovo blocco sociale di interessi che si muove autonomamente per ricontrattare con i governi e la politica le condizioni per il futuro, serve una nuova idea del produrre, distribuire e trasformare il cibo. E se questa idea non la producono, rappresentano e difendono gli agricoltori e chi lavora la terra, chi dovrebbe farlo?
Per vincere si devono realizzare diverse condizioni (sociali, economiche, politiche) ma una cosa è chiara: la via di un sindacato nuovo che rompa con la melassa consociativa degli interessi consolidati e sappia recuperare la funzione di rappresentanza vera degli interessi di chi rappresenta, è obbligata.
Serve un sindacato che non sia cinghia di trasmissione del potere, che faccia della democrazia il fondamento della sua forza insieme alla forza ed alla legittimazione delle sue idee, che si fondi sulla libertà e i diritti.
Le organizzazioni sindacali degli agricoltori che oggi pretendono di rappresentarli sono irriformabili, relitti di un tempo e di una storia che vanno superati nell’interesse di chi lavora la terra e consuma il cibo.
Usano tutti i mezzi per mantenere lo status quo: svuotano la partecipazione e costruiscono gabbie interne usando la mannaia delle espulsioni, dell’isolamento o del ricatto. Usano soprattutto la menzogna: la più grande è quella sui numeri dei loro iscritti che diventano come i carrarmati di Mussolini: se sommassimo i numeri che dichiarano CIA, Coldiretti e Confagricoltura gli agricoltori italiani sarebbero un numero incredibilmente più grande di quanto certificano l’ISTAT, le Camere di Comercio o l’INPS. Il potere politico lo sa bene ma gli conviene coprire e avallare: è la vecchia pratica del potere (in questo caso di chi vuole gestire indisturbato la montagna di soldi del denaro pubblico) scegliere con chi sedersi al tavolo. La truffa è servita in salsa concertativa!
Oggi abbiamo bisogno di una profonda Riforma della ruralità, dell’agricoltura e dell’agroalimentare italiani, di una profonda riforma della rappresentanza. Dopo decenni di ubriacatura del mercato serve riprendere il confronto e l’organizzazione degli interessi riprendendo le bandiere delle lotte di generazioni di lavoratori della terra che avevano per obiettivo la Riforma Agraria.
Serve dunque un progetto che ridefinisca il ruolo sociale dell’agricoltura li dove il mercato ha fallito, sottraendone il controllo ai molti faccendieri, speculatori, affaristi, politicanti che se ne sono impadroniti.
Serve, anche, un sindacato autonomo che sia “un’altra cosa” dal groviglio di intrallazzi e di scambio politico e finanziario su cui ingrassano CIA, Coldiretti e Confagricoltura e la cortigianeria di piccole sigle senza dietro nulla che si spartiscono le briciole.
Quel movimento nato a Genova nel 2001 lo ha capito presto e si è incamminato su un’altra strada anche a costo di dolorosi passaggi e di faticosi sacrifici.
Oggi, con la proposta della Costituente per la nuova Organizzazione Rurale che prenderà vita ad aprile, un primo accordo fra Altragricoltura e LiberiAgricoltori, noi diamo un segnale chiaro. Se ne vengono altri noi siamo pronti, non pensiamo di essere ne autoreferenti ne i soli. Ma serve chiarezza.
Quel blocco di potere che è garantito dall’accordo fra Coldiretti, CIA, Confagricoltura e i loro satelliti e il potere politico, va rotto o non ci sarà futuro. Per rompere quello schema che alimenta la crisi e lascia la ricchezza in mano agli speculatori serve, anche, l’alternativa sindacale nelle campagne.
Per questo chi oggi insegue l’idea della “democratizzazione di questo o quel sindacato storico” spreca il suo tempo, oppure conserva l’illusione di portarsi a casa qualche interesse personale sedendo al banchetto di chi si spartisce la torta dei soldi pubblici.
Comunque sbaglia obiettivo al pari di chi pensa che non serva una nuova rappresentanza e che basti lavorare e lasciar fare al mercato.
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