Era l’ultima settimana di agosto del 2002. Io, per conto del Foro Contadino Altragricoltura, ero in Sudafrica, a Johannesburg con la delegazione internazionale di Via Campesina in un convento protestante a Soweto a pochi passi da quella che era stata la casa natale di Nelson Mandela.
Fra il 26 agosto e il 4 settembre qui si sarebbe tenuto il Summit sullo Sviluppo Sostenibile dieci anni dopo quello di Rio De Janeiro voluto dalle Nazioni Unite e il Movimento internazionale dei contadini che si battevano e ancora si battono per la Sovranità Alimentare (Via Campesina) partecipava con tante altre organizzazioni al Forum organizzato dalla Rete Mondiale dei Movimenti Sociali che era nata l’anno precedente nel Forum Mondiale di Porto Alegre.
Eravamo li per dire alle tante ONG che partecipavano ed ai potenti del mondo che la sostenibilità non è questione tecnica ma di modello e di giustizia sociale.
Eravamo a Johannesburg per far avanzare di fronte all’opinione pubblica mondiale l’idea che il diritto alla terra ed al cibo erano (e sono) condizione fondamentale per qualificare la democrazia economica e la giustizia sociale.
Incontrammo una società sudafricana che usciva dall’Apartheid della segregazione raziale con cui i bianchi avevano schiacciato un popolo per decenni e che era stata cancellata dopo la liberazione di Nelson Mandela nel 1990 (27 anni di prigione) e la vittoria schiacciante dell’ANC alle elezioni democratiche.
Ancora oggi a quindici anni di distanza ricordo tutto lo sgomento di quei giorni nel toccare con mano e vivere la realtà di un Paese che aveva conquistato la democrazia ma non la giustizia sociale.
I bianchi separati in case ricche circondate da mura alte con sopra i fili spinati e le torrette con guardie armate, chiusi e trincerati ad un mondo di poveri che affollavano a milioni le bidonville o i quartieri che circondavano il centro degli affari presidiato militarmente.
Mentre nel Centro Congressi dove si sarebbe tenuto il Forum e il Summit le ONG di mezzo mondo si incontravano con le delegazioni che avevano preso posto negli alberghi del centro di Johannesburg, noi scegliemmo di stare li dove il popolo sudafricano conduceva la vita quotidiana e ci accampammo a Soweto radunando la nostra gente (delegazioni dei movimenti contadini di tutti i continenti) in un luogo che di per se era inquietante e affascinante.
Il luogo della segregazione, metafora della divisione e della sconfitta
Non ne ricordo il nome ed, ahimè, non ritrovo le foto ma le immagini le ho indelebilmente scolpite nella memoria.
Era una costruzione vasta in un’area di miniere d’oro dismesse in cui generazioni di africani schiavizzati avevano gettato sangue. Dietro il muro di cinta un mondo inaspettato. Una piccolo paese coloratissimo e kitch che si affacciava su due piani su una piazza centrale. Ballatoi, negozi, cinema, sala da gioco, negozi, bar … tutto in disuso. Sembrava un set cinematografico e io pensavo, in effetti, che lo fosse. Era costruito come se vi si dovesse rappresentare un film che aveva bisogno di inquadrature suggestive e fiabesche. Mi spiegarono che era uno dei centri costruiti apposta perché, dopo il duro lavoro nelle miniere, i “coloured” (la gente di etnia africana non bianca) potesse sfogarsi in una serata passata a svagarsi senza pretendere di andare in centro, nella città dei bianchi vietata.
Il simbolo della segregazione per eccellenza: quella che ti considera come carne da macello da sfruttare nel lavoro e che ti nega la pretesa di una vita e la socialità oltre la funzione per cui servi e sei sfruttato. Una riserva miseranda in cui la gente di colore si incontrava addobbata di mille colori abbacinanti e naif per addolcire la sofferenza e confondere la mente affogando le speranze nell’alcool e nel gioco.
Qui tenevamo il nostro quartier generale. Almeno duemila persone che venivano dai villaggi e dalle campagne che si incontravano con le delegazioni contadine degli altri Paesi.
Fuori, nel cortile, le donne dei villaggi avevano allestito un improbabile ristorante e sui fuochi e i bracieri all’aperto cucinavano il pasto per tutti su delle marmitte di ghisa enormi tagliando, affettando, aggiungendo, rimestando in continuazione e cantando canti tribali bellissimi.
Dentro, i forum, i seminari gli incontri. Un fitto programma di iniziative che, in realtà, eravamo costretti a riprodurre in tante lingue diverse.
Seminari ed incontri che dovevamo tenere in inglese o in spagnolo replicandoli per essere tradotti prima per quelli che parlavano Afrikaan, poi in lingua Bantù, poi in Swaili, ecc. Era il segno della divisione in cui era stato tenuto un popolo espropriato dell’arma più efficace: quello di una lingua comune per comunicare.
Divisione che prendeva forma appena ci ritrovavamo in assemblea generale. Ogni tanto, mentre si svolgeva l’assemblea, qualcuno si alzava urlando qualcosa a chi stava parlando ed allora si scatenavano le urla di protesta di una parte (una tribù di solito) contro un’altra ed erano cosi forti che io avevo paura che tutto degenerasse.
Amandla? Awethu! A chi il Potere? A noi!
Poi prese il microfono un dirigente del MST (il Movimento Sem Terra del Brasile), uno straordinario e carismatico contadino di origine italiana che al microfono urlò: “Amandlaaaaaa?”. Ed allora, improvvisamente tutti i presenti risposero insieme alzando il pugno chiuso “Awethù”. Il grido al microfono sali di nuovo: “Amandlaaaa?” e di nuovo come una sola voce forte, decisa, di una potenza impressionante, tutti risposero “Awethù”. tutti sedettero, l’assemblea riprese.
Accade altre due volte quella mattina: altre due volte partirono degli scontri in una babele di lingue che si risolsero quando riecheggiava il grido “Amandlaaa?” con la risposta collettiva “Awethù”. Conobbi cosi il significato del grido in lingua Zulu e Xhosa che sarebbe diventato il grido di lotta durante l’apartheid di tutto l’African National Congress e sarebbe stato usato dalle Pantere Nere negli Stati Uniti e da tanti altri movimenti nel mondo.
Amandla vuol dire “Potere” e Awethu vuol dire “A noi”. Una invocazione, una domanda, un auspicio e un obiettivo tanto forti e cosi riconoscibili da diventare immediatamente il terreno collettivo su cui ritrovare l’unità e la forza di essere un solo blocco sociale.
In quei giorni nella folta delegazione internazionale ci dividemmo i compiti ed a me ne spettarono due: quello di “organizzare le azioni di protesta” e, conseguentemente, quello di condurre una trattativa per favorire la partecipazione più larga possibile delle diverse componenti sociali sudafricane alla manifestazione unitaria del 31 agosto.
L’unità come cemento del potere che serve a cambiare i rapporti di forza
Le realtà sociali sudafricane non erano divise solo all’interno del movimento dei “Senza Terra” (I Landless People) ma anche fra movimenti rurali e movimenti urbani e operai. Con il lavoro di quei giorni di contatti ed incontri che condussi con Christoff Aguiton leader di Attack, alla fine, contribuimmo all’obiettivo.
Il giorno prima della manifestazione tenemmo una conferenza stampa internazionale con la partecipazione dei movimenti rurali e quelli urbani in cui annunciammo insieme la partecipazione al corteo unitario che il giorno dopo si sarebbe tenuta mentre il Governo Sudafricano si rinchiudeva in uno stadio per la sua manifestazione.
Ma il giorno dopo non tutto fu semplice. Un folto gruppo di Landless People non voleva partecipare segnando ancora una volta una divisione. Il corteo parti da Alexandra (un’altra Township poverissima se non la più povera) e dopo un lunghissimo percorso di diversi Chilometri a piedi arrivò nel centro finanziario della città. Nel mezzo del percorso incontrammo il gruppo di Landless People che era fermo ai margini del corteo e ci guardava sfilare.
Io ero alla testa e sul camioncino scoperto che precedeva la manifestazione c’era Paul Nicholson (leader e dirigente mondiale di Via Campesina) che non poteva marciare perchè aveva un problema ad una gamba. Mi ha fatto un cenno come per dire “Dai, proviamoci!”.
Mi sono mosso e sono andato verso di loro che mi conoscevano e soprattutto sapevano il significato del cappello verde e dei simboli di Via Campesina che portavo ed ho gridato al megafono con tutta la voce che avevo: “Amandlaaaaaa”, un grido liberatorio mi ha risposto dal corteo che stava sfilando e dalla gente ferma cui mi rivolgevo “Awethuuuuu!”; allora mi sono fatto coraggio ed ho scandito al megafono: “Landless People, Inside into the march all togheter! The people united will never be divided” …. si sono mossi e sono entrati nel corteo che li ha accolti con un grande applauso.
Abbiamo marciato insieme fino al centro della city di Johannesburg scandendo migliaia di volte “The people united will never be divided” nella giornata per me e per tanti indicabile, quando per la prima volta i movimenti urbani e rurali sudafricani hanno marciato insieme chiedendo giustizia e libertà per tutto il mondo.
Recuperare le parole e il senso delle nostre lotte per scandire la nostra unità.
Ecco: ora ci vorrebbe qualcosa del genere qui in Italia e in Europa. Ci vorrebbe la capacità di mettere l’obiettivo dell’unità sociale al centro dei nostri sforzi. Dovremmo recuperare la capacità di superare le divisioni in cui ci tiene separata la sconfitta.
In fondo i sudafricani cercarono in quei giorni le ragioni della loro unità nel Patrimonio delle lotte contro l’Apartheid che erano costate generazioni di morti e sofferenze ed avevano imparato il valore dell’unità come strumento fondamentale per nominare il potere che serve a cambiare i rapporti di forza sociali e politici e raggiungere l’obiettivo.
Noi, che da almeno tre decenni stiamo subendo nelle campagne italiane il peso distruttivo della modernità brutale del neoliberismo vincente, forse potremmo cercare nel patrimonio delle lotte per la terra delle generazioni di contadini che si sono affrancati dal medioevo del nostro latifondo le parole e le ragioni della nostra unità.
I nostri contadini che fecero le lotte per le terre pagando generazioni di morti e sofferenze gridavano: “Pane e Lavoro”.
Oggi che sia chi lavora la terra che chi consuma il cibo è di nuovo derubato dei diritti al Pane e al Lavoro dai nuovi latifondisti della speculazione finanziaria, nel tempo in cui lavorare la terra non da più reddito e consumare il cibo è sempre meno un diritto ci può salvare solo dal ripartire dalle cose semplici e vere e dalle parole che ci tengono insieme per ricostruire con l’unità la forza che ci serve.
Reddito, diritti, pane, lavoro, salute, territorio, sovranità sono le parole che dovremo saper rivendicare insieme e per cui dobbiamo saper fare la sintesi che ci permette di riconoscerci fra diversi in un progetto di società fuori dalla crisi sociale, ambientale, economica e di democrazia in cui ci vorrebbero tenere divisi.
Dobbiamo fare in fretta e ritrovare le parole e i gesti che ci rimettono insieme. Nello sciopero per la Terra che terremo fra il 24 e il 26 maggio dovremo iniziare a gridare con forza per chiamare all’unità, alla forza ed al potere che ci serve per cambiare verso. Dovremo farlo come contadini, sperando che altri rispondano
Amandlaaaaaaa!
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